giovedì 31 luglio 2014

La frusta e il corpo

Domanda: "Che cosa desidera per il futuro?"
Mario Bava: "Desidero una bara ricolma di sangue nella quale io possa riposare in pace, potendo però uscire la notte per addentare sul collo i film che ho fatto."
Domanda: "Come si spiega che gli americani e i francesi hanno apprezzato i suoi film più degli italiani?"
Mario Bava: "Perché sono più fessi di noi."

Esattamente un secolo fa, il 31 luglio 1914, nasceva Mario Bava, uno dei pochi indiscutibili caposaldi del cinema italiano di genere. Autore di pellicole consacrate allo stato di cult quali “La maschera del demonio” (196o) o “Sei donne per l’assassino” (1964), solo per citare un paio di titoli già recensiti dalle mie parti, Mario Bava ha segnato un solco che sarebbe stato ripercorso innumerevoli altre volte dai nostri registi, a partire da Lamberto, figlio d’arte e biologico, passando da tutta la generazione di registi anni Settanta e transitando dai signori del giallo, non ultimo quel Dario Argento che ha sottratto a Bava tutti gli inconfondibili stilemi del giallo che lo avrebbe reso celebre, per terminare (ebbene sì) con la generazione degli Zampaglione et similia che, pur con altalenanti risultati, devono certamente gran parte del loro mestiere agli insegnamenti del grande maestro. Inventore riconosciuto del film gotico, del giallo all’italiana, ma anche di catogorie “meno nobili” come lo slasher, Mario Bava riuscì ad esportare il suo ingegno anche all’estero, raggiungendo e ispirando nomi del calibro di David Lynch, Martin Scorsese, Tim Burton e, naturalmente, il “solito” Quentin Tarantino.

martedì 29 luglio 2014

Sette note in nero

Mi sposai giovane, e fui felice di trovare in mia moglie una indole congeniale alla mia. Osservando la mia predilezione per gli animali domestici, non perdeva occasione di procurarmi quelli delle specie più piacevoli. Avevamo uccelli, pesci dorati, un bellissimo cane, conigli, una scimmietta e un gatto.

Tutto iniziò nel 1843, quando un ispirato scrittore americano diede alla luce un racconto che, seppur nella sua brevità e nella semplicità del suo intreccio, sarebbe stato destinato a diventare uno dei capisaldi assoluti della letteratura horror di tutti i tempi. L’idea di base era molto semplice: sfruttare quell’antichissima leggenda che vede i gatti neri portatori di sventura, una leggenda che, tramandata di epoca in epoca, non poteva non essere giunta alle orecchie del nostro scrittore. Sulle origini del misterioso potere attribuito ai gatti neri si potrebbero spendere pagine e pagine ma, in questa sede, basti sapere che tutto è da ricondursi alla civiltà dell’antico Egitto, la più remota testimone della convivenza tra uomini e gatti (agli antichi egizi si devono le prime immagini funerarie di gatti nonché le prime iscrizioni a loro dedicate nelle piramidi). Legati alla dea Iside, regina della notte, i gatti neri vennero quindi associati al concetto di oscurità, il che li portò, con un breve passo, a divenire, come quest’ultima, sinonimo di paura. I secoli non fecero altro che amplificare questa associazione, fino a toccare l’apice durante gli anni bui dell’Inquisizione, quando migliaia di gatti neri vennero perseguitati e messi al rogo per le loro supposte connotazioni maligne. 

sabato 12 luglio 2014

Il prato macchiato di rosso

Davvero singolare questo “Il prato macchiato di rosso”, film horror italiano diretto nel 1972 dal semisconosciuto regista piemontese Riccardo Ghione (su di lui non esiste nemmeno una pagina di wikipedia).
Opportunamente realizzato sulla scia del capolavoro di Riccardo FarinaHanno cambiato faccia” (1971), già recensito diverso tempo fa sul mio blog gemello, “Il prato macchiato di rosso” tenta, come il suo predecessore, di inserire dei forti temi di critica sociale in un contesto giallo-horror, facendo leva sul fatto che la combinazione dei due elementi, a quell’epoca, non poteva che portare ad un prevedibile successo.
Al contrario “Il prato macchiato di rosso”, deriso e sbeffeggiato al suo debutto, finirà impietosamente per allungare l’enorme  lista dei tanti film invisibili di cui è pieno il mondo, regalando al suo regista, come ciliegina sulla torta, il non invidiabile titolo di “Ed Wood italiano”.
Il film uscì in anteprima sul grande schermo nel 1973, presentato in un'unica sala in quel di Fiorenzuola d’Adda, la città piacentina che fu in gran parte teatro delle riprese. Dopo quella prima proiezione, il film scomparve misteriosamente. Per anni lo si ritenne addirittura definitivamente perduto fino a quando, solo pochi anni fa, la CineKult di Manlio Gomarasca non riuscì a disseppellirne una copia, a restaurarla in maniera certosina e a riconsegnarcela splendente come un tempo in un DVD ricco di extra.